Non solo l'osservazione delle stelle dall'alto della specola di palazzo Marsili,
ma anche l'attivita' letteraria del Manfredi fu frutto di una lunga pazienza
e di passione.
Non che la strada gli fosse facile e spedita fin dall'inizio e che le rime gli
sgorgassero abbondanti in occasioni sentimentali in cui era coinvolta la sua
vita emotiva o affettiva. Tutt'altro. Le occasioni di poetare per un giovane
studente borghese in difficolta' economiche nella Bologna tardo secentesca erano
quelle ufficiali della vita cittadina: nozze, gonfalonierati , monacazione.
Miscellanee d'occasione in cui non soltanto si poteva pubblicare a spese d'altri
ma in cui c'era modo di guadagnare qualche soldo in un'onesta messa a frutto
dei propri talenti. E a Manfredi la buona educazione letteraria per comporre
un sonetto, una canzone, un'egloga (quello che adesso sarebbe invece un
biglietto d'auguri, un lungo telegramma, un discorsetto ufficiale) l'aveva avuta
su buoni testi e con buoni maestri fin da giovanissimo nelle scuole gesuitiche
di S.Lucia, prima di passare agli studi universitari.
Per questo non ci scandalizziamo se in questa poesia d'occasione che si
adeguava alle richieste dei committenti, troviamo un Manfredi barrocchetto
spiritoso, incline alle punte ingegnose. Tutta una produzione che lo scienziato
poi procuro' di far dimenticare quando si converti' con la fondazione della
colonia Renia (1698) al buon gusto dell' Arcadia.
E il buon gusto significo' soprattutto per il Manfredi l'adesione al canone
del petrarchismo: la prima canzone di questo nuovo gusto, se seguiamo la
tradizione vulgata, risale al 1700 e fu dedicata a una donna che il Manfredi
amava o aveva amato, Giulia Caterina Vandi che si faceva monaca in un monastero
cittadino. Da questa occasione dell'"amor per monaca" potremmo aspettarci una
formulazione patetica del tema, il richiamo a passioni, emozioni, ricordi di
una storia amorosa e al dolore della sua fine. Nulla di questo.
In questa canzone non rimane neppur l'ombra della storia di un mancato
matrimonio. l'amore e' sublimato alla scuola di due grandi maestri che sono
Petrarca e il platonismo. E cosi' l'amore per una donna angelica che scegliendo
il chiostro indica la via del cielo all'amante che s'incammina per seguirla
illuminato dalla luce che promana dai suoi occhi, riflesso immediato della
carita' divina.
Una storia d'amore cosi' idealizzata e' difficile che potesse avere una
continuazione o delle variazioni sul medesimo argomento: non si piange sulle
scelte dei santi. E infatti sono pochissime le rime del Manfredi che possono
essere ricondotte ancora alla storia di quell'amore giovanile o anhe solo a
un'occasione biografica. Ne', con qualche indiscrezione, possiamo essere
autorizzati a immaginare altri amori nella vita di uno scapolo che fu
singolarmente devoto. Le altre rime che vengono raccolte nel canzoniere del
Manfredi del 1713 sono ancora rime d'occasione per matrimoni, gonfalonierati,
morti, nascite ma, a differenza di quelle scritte prima della "conversine"
arcadica sono tutte all'insegna del buon gusto petrarchesco, frutto di una lunga
e paziente frequentazione del linguaggio della nostra buona tradizione: pazienza
e passione, come si e' detto all'inizio.
C'e' qualcosa di didattico in queste rime che si connette con l'attivita' del
Manfredi nel mondo accademico, sono molto spesso le rime di un professore che
vuole insegnare con l'esempio un modello ai suoi studenti che utilizzano anche
la poesia come una pratica sociale, analoga per certi versi ad altre abilita'
indotte come la scherma, il ballo, il canto.
Nel Settecento la posia aveva anche questa funzione che era nello stesso tempo
un sintomo e un mezzo di buona integrazione sociale.
Per questo, di mano in mano che il Manfredi procedeva nella sua professione di
scienziato, di astronomo, di consulente idraulico, la sua figua ufficiale
comincio' ad essere garantita dalla produzione scientifica e sempre meno legata
alla poesia. Dopo il 1713 eustachio si dedica sempre meno ai versi. Riesce molto
spesso a defilarsi davanti alle occasioni ufficiali, ma a volte compone su
richiesta degli esponenti di quella aristrocrazia con cui la sua professione
lo mette in contatto, a volte pensa pure di fare della poesia un mezzo per
ottenere quegli interventi pubblici che e' cosi' difficile ottenere nelle
missioni diplomatiche. La poesia si piega cosi' ancora una volta a ragioni che
non hanno nulla di quella liberta' fantastica ed espressiva che noi siamo
abituati a cercare nella lirica.
La garanzia dell'autenticita' sentimentale la troviamo invece in cio' che rimase
nel cassetto e che il Manfredi consegno' ritrosamente a uno dei suoi scolari
piu' amati perche' lo pubblicasse soltanto dopo la sua morte quasi a
conclusione della sua parabola poetica. Segno che i versi entravano nel vivo
di un'esperienza sentimentale, casta, castissima come quella che aveva ispirato
i versi per l'antica donna proprio non si puo' dirlo, petrarchescamente e
platonicamente atteggiato come liberazione da ogni istinto passionale nella
protesta della purezza perfetta degli intenti:
Vaga angioletta, che in si' dolce e puro
leggiadro velo a noi dal ciel scendesti,
ed or beando vai quest'aure e questi
colli, che di tal don degni non furo,
per quella man, per quelle labbra io giuro
per que' tuoi schivi atti cortesi, onesti,
per gli occhi, onde tal piaga al cor mi festi,
ch'io gia' morronne e sorte altra non sicuro;
e se ben gelosia del suo veneno
m'asperse, mai non nacque entro il mio petto
pensier che al tuo candor recasse oltraggio.
E se nube talor di reo sospetto
alzarsi oso', per dileguarla appieno
del divin volto tuo basto' un sol raggio.