| 
 |  | 
|  | |
|  | 
 | 
Il principio di indeterminazione
Annibale
D’Ercole
| Com’è
  noto, la luce è dovuta alle oscillazioni di un campo elettrico (e magnetico)
  che si propaga nello spazio analogamente alle onde sulla superficie del mare.
  Essa è caratterizzata dalla lunghezza d’onda, ovvero dalla distanza che
  separa due massimi (creste) o due minimi (ventri) successivi (Fig. 1). 
 Fig.
  1. Onda armonica. La natura ondulatoria della luce
  venne evidenziata nei primi anni dell’Ottocento da Thomas Young (1773-1829)
  tramite un famoso esperimento che qui ricordiamo brevemente, in quanto
  descritto in dettaglio in questa stessa rubrica nel fascicolo scorso (n. 4,
  2008, p. 33).  Supponiamo di dirigere un fascio
  luminoso verso uno schermo. Se interponiamo un diaframma con due fenditure,
  sullo schermo si ottiene una serie di immagini luminose inframezzate da
  regioni che rimangono scure. Queste frange
  di interferenza sono caratteristiche dei fenomeni ondulatori. In effetti,
  la radiazione che supera le fenditure si propaga di nuovo in tutte le
  direzioni. Di conseguenza, la luce proveniente da una fenditura si sovrappone
  a quella proveniente dall’altra fenditura. In particolare, le chiazze  luminose sullo schermo si verificano là
  dove i massimi delle due onde si sovrappongono, dando luogo a una
  interferenza positiva e dunque all’immagine luminosa. Nei punti sullo schermo
  dove la cresta di un’onda si sovrappone al ventre dell’altra si ha
  un’interferenza distruttiva: la somma delle due onde è nulla e nessuna
  illuminazione si verifica in quei punti (Fig.
  2). 
 Fig.
  2. Schema dell’esperimento di Young. Oltre un secolo dopo Young,
  l’esperimento venne ripetuto utilizzando un fascio di elettroni al posto di
  quello luminoso e utilizzando un cristallo (l’analogo del diaframma) e un
  rivelatore di particelle (l’analogo dello schermo). Ci si aspetterebbe che
  gli elettroni che attraversano le due fenditure proseguano in direzione
  rettilinea andando a colpire la regione di schermo proprio di fronte ad esse
  e formando dunque l’analogo di due sole chiazze luminose. Al contrario, anche
  in questo caso si ottiene una figura di diffrazione che rivela l’aspetto
  ondulatorio degli elettroni. Ma, se nel caso della radiazione ad oscillare
  sono i campi elettrici e magnetici, cos’è che oscilla nel caso di un
  elettrone? L’ipotesi maggiormente (ma non unanimemente) accettata è che
  dobbiamo abbandonare il principio classico di causalità in base al quale il
  moto di una particella in ciascun istante è determinato unicamente dal suo moto
  precedente, così da poter calcolare esattamente la posizione della particella
  stessa. Al contrario, esperimenti e condizioni iniziali identici non
  producono necessariamente misurazioni identiche e dunque è possibile fare
  solo previsioni di tipo statistico. L’interferenza tra gli elettroni si verifica perché
  l’elettrone ha una certa quota di
  probabilità di passare attraverso una fenditura e un’altra quota di probabilità di
  passare dall’altra fenditura. Pertanto
  una particella è descritta da una funzione Y(x) che indica la probabilità della
  particella di trovarsi in un determinato punto x. Si dimostra che Y(x) è di tipo ondulatorio, come le funzioni che descrivono altri
  tipi di onda (elettromagnetiche, sonore, marine), e viene dunque chiamata funzione d’onda.  L’esperimento di interferenza viene
  quindi interpretato dalla meccanica quantistica nel modo seguente: la
  funzione d’onda di una singola particella “attraversa” le due fessure e
  successivamente interferisce analogamente a come farebbe un’onda elettromagnetica
  classica. Nei punti sullo schermo dove si verificano interferenze costruttive
  è maggiore la probabilità di trovare la particella. Werner
  Karl Heisenberg (1901-1976) ha formalizzato l’intrinseca indeterminatezza
  della posizione dell’elettrone nel suo famoso principio di
  indeterminazione che si scrive nel seguente modo: DxDp
  » h. Qui Dx rappresenta l’incertezza nella posizione della
  particella e Dp
  quella sul suo
  impulso p = mv, dove m e v rappresentano, rispettivamente, la massa e la velocità delle particella.
  h
  = h/2p, con h pari alla costante di Plank. Intuitivamente possiamo
  ragionare come segue: per osservare una bilia di vetro e misurarne la
  posizione dobbiamo illuminarla; in questo caso l’energia del raggio luminoso
  è trascurabile e non ha effetto sul moto e dunque sulla velocità della bilia.
  Se però investiamo un elettrone con dei fotoni, questi ultimi, avendo
  un’energia paragonabile a quella dell’elettrone, ne deflettono la traiettoria
  alterando l’impulso dell’elettrone di una quantità Dp. Una maggiore illuminazione
  permette una più precisa determinazione della posizione (ovvero una riduzione
  di Dx), ma peggiora la misura
  dell’impulso, con un incremento di Dp.  Una seconda formulazione del
  principio di indeterminazione coinvolge l’energia della particella. Sappiamo che la meccanica
  quantistica associa fotoni di energia E
  = hn a
  onde elettromagnetiche di frequenza n.
  Per misurare questa frequenza è necessario contare il numero di oscillazioni
  compiute dall’onda in un intervallo di tempo Dt fissato. Questo intervallo non dovrebbe essere più
  breve del periodo dell’onda, ovvero del tempo impiegato a compiere
  un’oscillazione completa. Se infatti si misura solo parte dell’oscillazione,
  la frequenza e dunque l’energia del fotone, può essere conosciuta solo con
  una certa approssimazione DE: minore è l’intervallo temporale Dt, maggiore è l’incertezza DE. Più precisamente, il principio di
  indeterminazione stabilisce che DEDt
  » h e questa relazione vale non solo
  per i fotoni ma anche per le particelle materiali. Quindi, indipendentemente
  dalla precisione degli strumenti adoperati, non è possibile determinare con
  esattezza l’energia di particelle in esperimenti in cui esse si creano e
  annichilano in tempi brevissimi. Il principio di indeterminazione ha
  implicazioni profonde. Si consideri, ad esempio, una regione di spazio vuota.
  Per la fisica classica essa è una sorta di contenitore inerte privo di
  qualunque interesse. La meccanica quantistica, tuttavia, stabilisce che lo
  spazio non può essere mai completamente vuoto. Un’assenza di campi
  elettromagnetici equivarrebbe, in termini quantistici, a un’assenza di
  fotoni, ovvero a fotoni con energia esattamente nulla. Il principio di
  indeterminazione nella forma  DEDt
  » h
  impone, invece,
  un’incertezza sull’energia dei fotoni che deve fluttuare di una quantità DE; questa violazione della legge
  della conservazione dell’energia non può perdurare a lungo e i fotoni tornano
  a unirsi, annichilendosi a vicenda dopo un tempo Dt. Fotoni con energia maggiore sopravvivono per tempi
  minori. Quel che abbiamo detto per il campo elettromagnetico vale per
  qualunque campo ψ(x,t) e quindi nel vuoto si creano coppie di
  particelle e antiparticelle di ogni tipo (p.e. elettroni e antielettroni) che
  poi si annichilano a vicenda. Queste particelle vengono chiamate virtuali.
  A differenza di quelle reali, non possono essere osservate direttamente con
  un rivelatore di particelle. Tuttavia, è possibile misurare i loro effetti
  indiretti, come nel caso dell’effetto Casimir, che abbiamo trattato in questa
  rubrica nel 2004 (n. 4, p. 40).  Si noti che il principio di
  indeterminazione porta ad un conflitto con la teoria della relatività
  generale che stabilisce che lo spazio (o, meglio, lo spazio-tempo) si incurva
  in prossimità di oggetti massicci. Ora, in base a quanto abbiamo detto, nel
  vuoto possono comparire particelle molto energetiche, a patto che il loro
  tempo di vita sia molto breve. Ma, in virtù dell’equivalenza tra massa ed
  energia, a queste particelle è associata una massa m = DE/c2 (dove c
  è la velocità della luce) in grado di curvare localmente lo spazio. Lo spazio
  vuoto sembrerebbe dunque essere “schiumoso” piuttosto che liscio, come
  assunto dalla relatività generale. Non bisogna credere che il
  principio di indeterminazione, data la sua stranezza, sia confinato solo nei
  libri di fisica o all’interno dei laboratori scientifici. Al contrario, pur
  senza rendercene conto, lo incontriamo in oggetti di uso quotidiano che
  sfruttano il cosiddetto effetto tunnel. Classicamente, una pallina in
  fondo a una buca non ne può fuoriuscire, a meno di non fornirle un’energia
  cinetica sufficiente. Dal punto di vista quantistico, tuttavia, se la
  particella è confinata in una buca molto stretta (ovvero se l’incertezza Dx sulla sua posizione è molto
  piccola), l’incertezza Dp del suo impulso, e dunque della sua
  velocità, è molto grande. Quindi la particella ha una certa probabilità di
  trovarsi con un’energia sufficiente a uscire dalla buca, anche se la sua
  energia media non basterebbe a superare la barriera. Otteniamo lo stesso
  risultato utilizzando anche la seconda formulazione del principio di
  indeterminazione. Si può infatti affermare che, su un intervallo di tempo Dt sufficientemente breve, la
  fluttuazione energetica DE della pallina è tale da permetterle
  di fuoriuscire.  L’effetto tunnel è utilizzato nei
  dispositivi elettrici ordinari per far “saltare” gli elettroni aldilà di
  barriere di potenziale elettrico altrimenti insuperabili. Ad esempio, ogni connessione fra cavi elettrici
  effettuata meccanicamente (morsetti) comporta conduzione per effetto tunnel.
  Infatti, ogni conduttore esposto all’aria si ricopre rapidamente di uno
  strato di ossido, per cui fili intrecciati o connessi con viti,
  morsetti etc. (esempio: le usuali lampadine avvitate nella loro sede),
  presentano strati isolanti fra le giunzioni. La corrente elettrica può fluire
  grazie all’effetto tunnel. Questo effetto è altresì alla base di molti
  dispositivi elettronici quali diodi, memorie flash e microscopi. Ricordiamo
  infine che l’effetto tunnel consente anche il verificarsi del fenomeno della
  radioattività. |