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In Italia
7 luglio. Morti a Reggio
Reggio EmiliaIl 7 luglio 1960, nel corso di una manifestazione sindacale, cinque operai reggiani, tutti iscritti al PCI, sono uccisi. I loro nomi, immortalati dalla celebre canzone di Fausto Amodei "Per i morti di Reggio Emilia": Lauro Ferioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli. Questi morti costringeranno alle dimissioni il governo Tambroni, monocolore democristiano con il determinante appoggio esterno dei fascisti del M.S.I. e dei monarchici, e apriranno la strada ai futuri governi di centro-sinistra. Ma soprattutto, contrassegneranno in modo repentino un radicale mutamento di clima politico nel paese: l'avvento della generazione dei "ragazzi con le magliette a righe". Sino a quel momento i giovani erano considerati come spoliticizzati, distanti dalla generazione dei partigiani e orientati al mito delle "tre M" (macchina, moglie, mestiere): la giovane età di tre delle cinque vittime testimonia invece la presa di coscienza, in forme ancor più radicali della generazione che aveva resistito negli anni Cinquanta, di un nuovo proletariato giovanile. Di questo mutamento di clima - dalla disperata tristezza per il revanchismo fascista alla rinascita della speranza dopo i fatti di luglio - sono testimonianza la poesia di Pasolini "La croce uncinata" (aprile 1960) e l'articolo "Le radici del luglio" (Vie nuove, 29 ottobre 1960).
La croce uncinata Da molte notti, ogni notte,
passo sotto questo tempio, tardi,
nel silenzio dell'aria
del Tevere, tra rovine scomposte.
Non c'è più intorno nessuno, allo scirocco
che spira e cade, fioco tra le pietre:
forse ancora una donna, laggiù, e dietro
il bar di Ponte Garibaldi, due tre poveri
ladri, in cerca di dormire, chissà dove.
Ma qui, nessuno: passo veloce,
rotto da una notte tutta ansia e amore:
non ho più niente nel cuore
e non ho più sguardo negli occhi.
Eppure, quest'immagine, col passare delle notti,
si fa sempre più grande, più vicina:
ecco lo spigolo, liberty, contro la turchina
distesa del Tevere: ed ecco i poliziotti
che piantonano il tempio, tozzi e assorti.
Li vedo appena, coi loro cappotti
grigiastri, contro un albero secco,
contro i bui scorci del ghetto:
e colgo una breve luce, negli occhi
umiliati dal loro goffo sonno di giovinotti:
una accecata stanchezza che vede nemici
in ognuno, un veleno di dolori antichi,
un odio di servi: restano indietro,
soli come lo scirocco che vortica tra le pietre.
Una vergogna, triste come la notte
che regna su Roma, regna sul mondo.
Il cuore non vi resiste: risponde
con una lacrima, che subito ringhiotte.
Troppe lacrime, ancora non piante, lottano,
oltre questi umilianti quindici anni,
dentro le nostre dimentiche anime:
il dolore è ormai troppo simile al rancore,
neanche la sua purezza ci consola.
Troppe lacrime: a coloro che verranno
al mondo, per molto tempo ancora
questa vergogna farà arido il cuore.
[Aprile 1960]